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Lucia – Caro papà

eccomi, dopo quasi tre anni, a scriverti.
Infiniti pensieri sono sorti in me in tutte le stagioni che si sono susseguite da quando tu sei partito. Ora, forse, posso iniziare a lasciare traccia di un percorso individuale, che si è fatto strada in un momento così particolare per le vite di noi tutti.
Tu hai lasciato questo piano dimensionale fisico il 5 aprile 2020, in un letto d’ospedale, la mattina alle 10 della Domenica delle Palme, e come sempre riesco a leggervi un significato vero e profondo, proprio perchè sei tornato a Casa, alla nostra vera Casa.
Ti prendo a simbolo della vicenda che ha toccato molti, moltissimi tra noi, e solo col tempo emergeranno tutte le sfaccettature e i chiaroscuri di un evento che da sempre ha riguardato la storia dell’Umanità: il confronto con la malattia e la morte, quella che San Francesco chiama Sorella Morte.
Quando ad inizio 2020,  varie voci hanno cominciato a paventare l’arrivo di un virus di cui poco si sapeva come provenienza, modalità di contagio e possibilità di cura, ricordo che uno dei primi pensieri che mi ha attraversato è stato chiedermi cosa ci fosse così di strano…in tante parti del mondo si vive al limite della sopravvivenza ed ancora si muore per patologie infettive, letali se non trattate rapidamente alla loro insorgenza.
Mi domandavo come mai il nostro mondo occidentale si ritenesse esente dal confronto con uno dei punti cardini della vita umana, la malattia.
In questo nostro vivere quotidiano,  fatto di soddisfacimento dei bisogni primari senza grosse difficoltà (difficile pensare per un cittadino medio di saltare un pasto, perchè non si ha a disposizione del cibo, oppure non avere rifornimento di acqua pulita ecc.), sembra non ci siano problemi ad affrontare malattie legate al nostro stile di vita opulento ed “inquinato”, patologie che possono cronicizzarsi o evolvere rapidamente portando la persona ad affrontare una delle tappe fondamentali nel nostro percorso come esseri umani, cioè il passaggio verso un’esistenza altra.
Se la malattia vista in questo modo è accettabile dall’immaginario comune, meno il fatto di dover affrontare una malattia causata da agente infettivo…eppure, fino all’avvento dei primi antibiotici, di polmonite ci si ammalava e moriva.
Ero stupita, perchè, per far fronte a tale problema, si prospettava una modalità di intervento che avrebbe stravolto completamente quello che io considero i beni più preziosi di questa vita terrena: STARE INSIEME, ABBRACCIARSI, CONDIVIDERE INSIEME I MOMENTI BELLI E BRUTTI DELLA QUOTIDIANITA’. L’amore si fa presenza attraverso la nostra carne, noi siamo strumenti di uno spirito che tutto pervade e i tesori del cuore trovano espressione nella nostra vicinanza e sostegno reciproco.
Dentro di me sentivo che la paura grande su cui stavano iniziando ad alitare è quella primordiale, e’ quella con cui ciascuno di noi si confronta o dovrebbe confrontarsi, per arrivare pronti al momento della partenza.
Sapevo di essere avvantaggiata, sia perchè fin da piccola ho sentito dentro di me la continuità della Vita (le persone care che mi hanno allevato e poi salutato, le ho sempre avvertite come eternamente vive e presenza costante), inoltre, avendo scelto come professione di essere infermiera, fin dai miei primi tirocini mi sono trovata ad accompagnare chi stava affrontando questo momento così forte, l’abbandono del proprio veicolo fisico, cercando di rendere il più possibile lieve la sofferenza fisica e accettando che una vita apparentemente si arrestasse.
La morte o sorella morte l’ho sempre percepita come un evento naturale e come un appuntamento a cui non si può mancare.
Per questo è così importante vivere in pienezza, momento per momento, attimo dopo attimo.
Partendo da questi presupposti, trovai allarmante la chiusura improvvisa delle scuole, simbolo dell’educazione condivisa, punto di arrivo di evoluzione sociale, non più precettori privati o educazione alta solo per chi ne aveva i mezzi, ma trasmissione di un sapere che cercava di arrivare in modo eguale a chi è dotato di risorse economiche e chi no, per far si che non ci sia svantaggio alla partenza.
Chiudere la scuola ha un impatto simbolico fortissimo, non consentire ai bambini di trovarsi e giocare insieme, significa privare di quell’elemento che è spinta ed esigenza  innata, lo stare insieme dei bambini è crescita, è imparare gli uni degli altri, e’ Essere umani.
Tu Papà sai quanto mi trovai in difficoltà in quel momento, il mondo si stava fermando,  si stava chiudendo per una paura che prendeva alla pancia e alla testa i più, e che faticavo  a capire, mentre io ero chiamata ad essere ancora più presente in quello che era ed è il mio lavoro.
Come infermiera esperta, avendo avuto esperienza lavorativa anche nel reparto di malattie infettive, avendo un bagaglio di conoscenze anche grazie agli anni vissuti nel contesto della ricerca clinica, fui chiamata con altri carissimi colleghi ad aprire aree dedicate ad  accogliere persone con quella specifica patologia.
Sicuramente le intenzioni, soprattutto all’inizio, erano delle migliori. Le professioni di cura sono chiamate a questo, assistere e curare l’altro. Da qui non si scappa.
Ed ecco che avvertii un’altra nota stonata…o forse più note stonate…
Oltre alle scuole vengono chiusi gli accessi ospedalieri e inizia a diffondersi un messaggio che io ritenevo e ritengo  inquietante, se non, passami il termine, “demoniaco”:  distanziamento, distanziamento sociale, se tu vuoi il bene del tuo caro, è meglio se ci stai lontano.
Lì sono sobbalzata, ricordo che mi dissi: “ma come…a catechismo da piccola mi dicevano che Gesù stava in mezzo ai lebbrosi, non aveva paura, li amava, li toccava, non li relegava  negli anfratti ai margini delle città,e mi portavano lui ad esempio, ed ora, invece mi dicono che bisogna stare lontani. Se hai un familiare che sta male, non stargli vicino, lascia la spesa fuori dalla porta, non toccarlo, non vederlo, non importa se sono tuo papà o tua mamma anziani, se magari da soli non riescono, è per il loro bene…” e a noi professionisti della salute, invece, le circolari indicavano che nelle stanze dei degenti dovevi entrarci il meno possibile, l’indispensabile…
Insomma se in seimila anni di storia umana, di evoluzione della civiltà, il codice etico-morale (e nel mondo cristiano ancora forse di più) imponeva di stare accanto a chi stava male e aveva bisogno, ora il messaggio veniva completamente ribaltato. Solo la distanza salva….
E questo a me ha dato i brividi..
Beh Papà, tu sai quante cose ho visto in quel periodo nelle corsie attraversate e vissute fin quasi allo sfinimento (anche se ho avuto colleghi con un grado di abnegazione totale, ultraumano, che so non essere il mio e quindi ancor di più ammiro), sai quante perplessità a vedere arrivare persone, molte in là con l’età, lasciate a se’ stesse da più giorni.
I medici di base avevano ricevuto l’indicazione a non visitare piu’ e tranne pochi coraggiosi, che tenevano ai propri pazienti e già avevano curato con efficacia polmoniti atipiche anche in precedenti allarmanti avvisi di patogeni nuovi, i più si limitavano a dare indicazioni telefoniche, quando poi erano raggiungibili al telefono, e molte volte queste indicazioni cozzavano a sangue con gli elementi di base della cura delle infezioni.
Persone con malattie croniche che, ai primi sintomi influenzali, si erano autorecluse e distanziate dai propri familiari per timore di contagiare, e con le difficoltà date da uno stato di malattia, non erano più riuscite ad assumere i farmaci presi cronicamente magari da anni; queste persone, quando  arrivavano in ospedale, presentavano quadri di scompenso metabolico, o cardiaco o renale, ma non erano in grado di comunicare la loro situazione pregressa, i farmaci presi quotidianamente, a volte non c’era nemmeno il numero del telefono di casa.
Ci sarebbe voluto vicino il proprio caro a raccontare o spiegare, ma sappiamo che questo non era permesso e quasi tutti si attenevano a questa prescrizione, poco considerando il richiamo del cuore. Dall’altra parte ci sarebbero voluti dei medici preparati a 360 gradi per  trattare situazioni molto complesse, pane comune del bravo internista di medicina generale, meno facile per figure molto specialistiche ma non sempre pronte a cogliere dei segni che non erano d’infezione ma di altre patologie sottostanti…e sappiamo che i nostri ospedali, negli anni sempre più ridotti nei posti letto e nel personale e accentrati in grandi hub cittadini, non più in vicinanza della comunità, si sono trovati impreparati a gestire i grandi numeri di affluenza improvvisa…D’altronde la medicina territoriale è il filtro ..e se tu blocchi quella, è facile immaginare le conseguenze, anzi, non c’è bisogno di immaginare,   l’abbiamo visto coi nostri occhi. E nella nostra equipè, a gestire e trattare malati anziani, con comorbidità importanti e quadri di scompenso, avevamo psichiatri, pediatri, radiologi e , se andava bene, cardiologi e pneumologi…ma il dosaggio d’insulina non sempre si sapeva farlo…
D’accordo Papà, ho sforato, in realtà quello che mi premeva dire era altro…
Si, perchè anche tu sei stato male, tu che già da alcuni anni non vivevi più nella tua casa, ma avevi preferito farti assistere nel centro in cui avevi proseguito la riabilitazione, dopo il coma farmacologico e l’importante polmonite atipica che avevi avuto nel 2014.
Ero riuscita a farti visita presso la tua residenza ancora a febbraio, poi tutto bloccato e, a parte un saluto rapido, qualche settimana prima, ti avrei rivisto solo nella tua camera d’ospedale.
Ricordo che una delle ultime volte che ci eravamo visti tranquillamente come al solito, e ti avevo aiutato a pranzare, imboccandoti a tratti, mi ero imposta di ricordarmi di questi momenti e mi ero detta che era una fortuna che potessi starti vicino per portarti il cucchiaio alla bocca.
Sei stato portato nel grande ospedale dopo giorni di febbre e quando sei stato ricoverato, so che avevo preso la decisione che in un modo o nell’altro sarei riuscita a vederti e a starti vicino.
Si’, perchè anche di fronte alle patologie in apparenza più gravi e letali, mai dovrebbe  essere impedito, se uno vuole, di stare accanto al proprio familiare.
Come ci siamo detti prima, sorella morte è una tappa non evitabile del nostro cammino e non dovrebbe essere il timore nei suoi confronti a non farci tenere la mano o accarezzare la fronte di chi amiamo proprio quando ha più bisogno di noi. Se non lo facciamo quando ci sentiamo chiamati a farlo e arretriamo di fronte a delle disposizioni che sono contrarie alle imposizioni dell’anima umana, allora prepariamoci, dopo, a vivere nel senso di colpa, nel rimpianto e nella rabbia, perchè questo sta avvenendo in tante famiglie anche a distanza di mesi o anni dalla partenza di un proprio caro, non più visto dopo la soglia dell’ospedale…Ecco, ricordiamoci di questo, perchè non dovrà più essere consentito che cio’ AVVENGA per NESSUNA ragione, valida o non valida, scientifica o no…
Io, per entrare nella tua stanza, chiesi una sorta di autorizzazione e ancora mi chiedo quale santo protettore, forse proprio San Giuseppe, tu avessi, perchè mi venisse accordato il permesso. Avevo però pronto un piano B, lì sarei riuscita ad entrare a prescindere, proprio perchè da essere umano prima, da figlia poi ed infine da infermiera, so quale differenza faccia avere accanto qualcuno che ti ama e fa il tifo per te. Se non potevo varcare la soglia in modo legale, lo avrei fatto in altro modo.
La confusione negli ospedali era tale, che se fossi arrivata in divisa e mascherina al tuo reparto e avessi indossato i dispositivi di protezione in dotazione nella mia unità operativa, nessuno mi avrebbe riconosciuto o chiesto alcunchè una volta entrata…e questo mi dava coraggio.
Tu sai Papà che grande beneficio abbiamo ottenuto, ancora una volta soli io e te, a raccontarcela e giocarcela, in quella stanza a due letti, dove accanto avevi quella bella signora. Dall’inizio l’ho trovata tranquilla, in sedazione profonda, che semplicemente stava aspettando il suo turno per ripartire da questa Terra, così faticosa a volte.
Tu silenzioso e tranquillo non lo fosti mai invece, in quei cinque sei giorni che ti sei preso prima di tornare a giocare con gli angeli e reincontrare tuo fratello Michele, che sicuramente sapeva già saresti arrivato.
Correvo da te ad ogni mio fine turno (quando arrivava, arrivava…) e mi fermavo il più a lungo possibile, almeno fino a quando le attività generali degli operatori sanitari lo consentivano.
La prima volta arrivai e ti trovai sotto scafandro, assopito, ma quando entrai e ti toccai la mano mi guardasti… io ero ricoperta dagli strati dei tanti dispositivi di protezione individuali alias DPI, gli occhiali appannati e le lacrime che scendevano, ma i nostri occhi si sono subito trovati e parlati. Ho capito in fretta che quell’aggeggio, che in teoria avrebbe dovuto facilitarti la respirazione, era simile ad uno strumento di tortura  e solo assopendoti trovavi sollievo dal continuo rumore e dalla fatica di fare entrare l’aria dentro te…Come sempre, fin da quando ero piccola, vidi che la tua preoccupazione era tutta per me, mi sorridevi, non capivi come io potessi essere lì, ma ne eri felice, non volevi che io stessi male per te… Abbiamo pregato insieme, abbiamo telefonato a tutte le persone che ti amavano e ti amano, tuo figlio, tua moglie, la tua mamma, i tuoi fratelli e sorelle, Maria, la tua assistente d’anima personale… Ti tolsi lo scafandro, ti ripulii le labbra, un goccio d’acqua, un cucchiaino di polpa di frutta, ti ho messo la musica, quella che ti piaceva e ti stavo vicino, non sapendo cosa sarebbe successo, ma sapendo che  ci sarei comunque stata….e per l’ennesima volta, ringraziai il momento illuminato in cui finalmente avevo scelto e deciso che avrei fatto l’infermiera, professione, che per un motivo o per un altro, mi ha consentito di essere sempre vicino ai miei che ne avevano bisogno…
Fummo io e te per cinque lunghi giorni, io non potevo decidere delle tue terapie e  sapevo poco di ciò che ti veniva fatto, arrivavo quasi sempre nel tardo pomeriggio, medici non ce ne erano, la confusione sempre molta, il personale poco e preso.
Prima di entrare nella tua stanza, ogni volta sentivo questa morsa al cuore, allo stomaco, avevo la speranza di vederti riposare tranquillo, in realtà, anche quando l’anestesista di turno, in accordo con la tua amministratrice di sostegno, aveva impostato la terapia per la sedazione profonda, quando io entravo, tu mi toccavi l’anima e riconoscendomi aprivi mezz’occhio e ogni volta, avvicinandomi con le garze bagnate, muovevi  la bocca…sapevo che, come sempre, stavi lottando, perchè in realtà, fino all’ultimo, tu non ti sei arreso, volevi stare vicino e proteggere i tuoi figli, i tuoi cari.
Il sabato sera, la sera prima del tuo ritorno a Casa, io ed una collega, molto gentile, attenta e premurosa, ti avevamo lavato tutto, ed avevo osservato quanto fossi possente, quanto, nonostante tutto, il tuo corpo, il tuo grande cuore buono, stessero ancora trattenendo il tuo spirito. Quella sera, forse presagendo che era l’ultimo nostro incontro sul piano fisico, stetti con te ancora più a lungo, pensavo che prima o poi mi avrebbero buttato fuori, poi mi ricordai di quella dottoressa che qualche giorno prima era entrata in camera da te per salutarmi..Sai cosa mi disse? Che era contenta di parlarmi, perchè con tutti gli altri parenti degli altri pazienti aveva potuto colloquiare solo per telefono…e parlando in presenza con me, in qualche modo si sentiva di star riscattando anche tutti gli altri incontri non incontri…E ricordandomi questo, rimasi più tranquilla…in fondo non ero un’intrusa in quel reparto…Ero un po’ il simbolo di tutti gli altri familiari.
Il giorno dopo, la Domenica delle Palme, mentre stavo recitando le mie strane preghiere all’Universo..da buddista…arrivò la telefonata che da poco avevi lasciato questa dimora ed eri rientrato a Casa.
Sapevo che i protocolli (che parola fastidiosa mi è ora diventata…) in uso prevedevano  due ore di stazionamento nel letto e poi il trasporto in camera mortuaria, dove nessuno ti avrebbe più visto. Corsi al volo in ospedale, entrai senza avvisare nessuno, arrivai al tuo letto, sperando di trovare un’espressione tranquilla sul tuo viso.
Avrei voluto vedere che eri partito serenamente, accettando…invece ti trovai avvolto nel tuo sudario bianco, col volto che tradiva la tua lotta fino all’ultimo istante. Ti chiesi perchè non avevi aspettato che io arrivassi, poi ho capito che se alla fine avevi reso le armi e avevi lasciato il corpo, avevi potuto farlo senza nessuno di noi accanto, non avresti voluto procurarci dolore o sofferenza aggiuntivi…partivi in apparenza da solo, ma sui piani sottili, dello Spirito, erano in tanti a venirti a prendere ed accompagnarti…
Dal tuo amato papà Gegio, a tuo fratello Michele, alle tue nonne sempre citate Milly e Rita e a tutte le stupende anime che in coro, quella mattina, ti hanno accolto nella terra della Pace e dell’Amore incondizionato, da te così agognati…
Che dire, il tuo sudario era impregnato di candeggina, per te credente e praticante, raggiungere il Signore la Domenica delle Palme era simbolo di entrata festosa in Gerusalemme…Scattai delle foto, ti accarezzai e sapendo che ormai non abitavi più quel corpo, infinitamente ti ringraziai…ancora una volta avevamo vissuto tu, padre, ed io, figlia, un’esperienza scolpita per sempre nel cuore e nell’anima….
Sono uscita da quella stanza d’ospedale non sapendo se sorridere o se piangere…se sentirmi sollevata perchè non stavi più soffrendo o disperarmi perchè non avresti più  fatto squillare il mio telefono dodici volte al giorno. Il mio Papà… ora vicino al suo amato Gesù…
Dopo tre giorni, e non è un caso, sentii fortissima l’esigenza di camminare da sola nella natura…il giorno dopo sarebbe stato il 9 aprile, giorno del tuo settantaduesimo compleanno….mentre camminavo e sentivo questa tristezza nel cuore, vidi il ramo di un albero in fiore, forse un melo o un pero, non so…ed improvvisamente avvertii un’improvvisa leggerezza, una serenità incredibile, una sorta di liberazione…Lì ho capito che  avevi raggiunto veramente il Padre e la Madre e che eri finalmente nel pieno amore…che tutti i passi fatti erano stati quelli giusti e che quello era proprio il momento della tua partenza…che poco avresti tollerato di andare e venire da ospedali e letti di degenza, con un corpo sempre più stanco e provato, non più responsivo alla tua agile mente…
In un secondo momento, infatti,  era emerso che avevi un’infezione vancomicina resistente e che, in un altro periodo, i medici avrebbero provato a debellarla con antibiotici di seconda linea, piuttosto che passare subito alla sedazione profonda..
Questo pensiero fa parte di tutti quei se e però che non trovano spazio nel momento in cui senti ed accetti che prima di tutto siamo Esseri Spirituali e nell’impermanenza della vita devi essere pronto in qualsiasi momento a lasciare ed andare …
Lasciare ed Andare …per questo è importante coltivare i Tesori del Cuore e in ogni momento della propria esistenza domandarsi se vale più una regola, fatta magari per altissime ragioni, oppure il richiamo del cuore e dell’anima…perchè alla fine conterà solo questo…solo questo…
Grazie di tutto Papà, fino all’ultimo e tuttora sei il mio grande esempio di Amore e bontà!
Grazie con tutto il mio cuore!
La tua Lucietta