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Giuseppe – Lo spaese

Sono sempre stato di fretta in vita mia, anche quando di urgenza non ce n’era, un’inquietudine come se fossi buccia in cerca della propria polpa, che gli obblighi imposti nella pandemia avevano esacerbato, resa più virulenta, se volete.

È forse questo il motivo per cui quella mattina uscii di casa presto, per arrivare da nessuna parte prima di chiunque altro. Via, via verso un mondo di libertà e libero passeggio, ma la prigione delle quattro mura si replicava ora nei tanti che portavano il cane a fare i propri bisogni, il guinzaglio come fosse un braccialetto elettronico che li autorizzava ad una temporanea ora d’aria fuori dagli arresti domiciliari.

Mi accorsi a un certo punto, ormai lontano dall’indirizzo che rendeva me cittadino osservante e legittima la mia esistenza, di aver dimenticato la dovuta maschera, e mi venne fatto di pensare che ora che avevo accettato che quella mia esistenza fosse ridotta a pura biologia, ora che il timore di perdere la vita aveva intanto ucciso la vita in comune, le amicizie, le relazioni sociali, e persino mostrare la faccia era diventata cosa spudorata, mi venne fatto di pensare, dicevo, che nulla di umano restava in quel mio mero sopravvivere.

Non vi dirò di me, perciò, non posso metterci la faccia in questa storia, solo una maschera standardizzata da una sigla. Lo so, prima del Covid erano più marcati i tratti del protagonista di una storia, e meglio definite le sue piccole, umane ambizioni, ma in pandemia la vera protagonista è la nebbia del pensiero, e quella non si leverà in fretta.